domenica, ottobre 05, 2008

Solubili...encore une fois

Non sapevo quale fosse il livello di danno che quella roba gli aveva provocato. Un amico di famiglia sulla sessantina, più o meno dell'età di mio padre mi sedeva davanti e mi guardava con un'aria abbastanza attenta. Era la prima volta che lo vedevo dopo che era uscito dall'ospedale perché si era preso un ictus.

La moglie al suo fianco non tradiva la minima preoccupazione come se fosse ormai normale per lei andare in giro con lui in quelle condizioni. Probabilmente ha ormai compreso che tutti quanti conoscono la sua situazione: il giro di conoscenti è una comunità in cui le informazioni sul tuo conto girano veloci (devo ricordarmi di questa cosa, non è poi così tanto banale).

Seduto sulla sedia a rotelle incominciava a guardarsi attorno come un bambino al supermercato. Non sapevo cosa fare e come comportarmi, per fortuna la moglie iniziò per prima la conversazione.

-       Allora come stanno i tuoi?

-       Bene – Risposi pensando a quanto fosse diversa la mia situazione dalla sua e al fatto che non potessi rispondere automatico – e voi?

Cercai di rimanere attento alle parole di quella donna, ma la curiosità era troppo forte. Mi voltavo continuamente per guardarlo. La bocca si muoveva, indicando che non vi era alcuna traccia di paresi. Sussurrava qualcosa, una specie di nenia, forse una canzone. Ma non riuscivo a intendere perfettamente il suono che gli usciva dalla bocca perché dovevo far finta di essere attento a cosa mi diceva quella donna.

-       E Michela come sta?

-       Bene, da quando abbiamo avuto Julian non lavora più..

Aggiunsi qualche dettaglio in più per scappare dalla trappola del – e voi come state – inoltre non ricordavo più il nome dei suoi figli e questa cosa mi rendeva praticamente incapace di sostenere una conversazione decente. Potevo solo muovermi su temi inutili e generali. Lui iniziò a fissarmi sorridendo e così io, di riflesso, iniziai a ricambiare mentre annuivo a caso alle parole che la moglie mi diceva. Devo essere sincero: non captai praticamente nulla di quello che mi disse. La mia distrazione era così totale che molto probabilmente (ma di questo non ne sono sicuro) devo aver sbagliato il momento in cui infilarmi nella conversazione. Devo aver risposto un "e del resto" forse nel momento in cui lei mi chiedeva qualcosa. Comunque non vidi la sua reazione sul volto perché (e la cosa è ancora oggi un mistero per me) incominciai a rivolgermi al marito.

-       Allora Paolo, come va?

Come il suicida che capisce di aver sbagliato solo dopo essersi buttato dalla finestra, compresi di essermi infilato in un casino, ma era troppo tardi. Lui sembrò ignorare la mia domanda per un attimo poi, come fosse la cosa più naturale del mondo, fece un'espressione del tipo "e come vuoi che vada? Non vedi che sono sulla carrozzella?"

Guardò sua moglie, per un attimo e mi disse, tornando a fissarmi con attenzione, con il tono di chi voleva dire "ormai non mi resta che attendere": "stivali messicani conquistano il lavandino".

Dopo averlo detto rimase a sostenere il mio sguardo con intensità. Nessuna traccia di pentimento, poi fece un cenno che sua moglie interpretò come un andiamo e ci accomiatammo.

Continuo ancora oggi a pensare a quelle sue parole, forse avevano un senso in qualche altra dimensione. Ma il punto non è questo.

Penso che le parole, quando perdono di significato, acquistano una bellezza atroce. Sono la scoperta di qualcosa d'inimmaginato. Il segnale che c'è qualcosa che sfugge.


(aM 18.2008)

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