giovedì, settembre 18, 2008

Solubile numero 17

Un tizio che ha fatto un corso per scrivere racconti, mi fa perché non provi a imitare lo stile di qualche scrittore?

E io gli ho detto va bene, perché no?

Così mi ha dato un libro di uno scrittore americano che è molto bravo a sentir lui e ho iniziato a leggerlo.

Mi ha pure detto che da qualcosa dei suoi scritti ci hanno fatto due film. Uno si chiamava, se ricordo bene, Blue in the face mentre l'altro non lo ricordo più.

Comunque ho iniziato a leggere uno dei suo racconti, piuttosto lungo, e mi è molto piaciuto lo stile e le cose che narrava. Mi è piaciuto molto il modo in cui tirava dentro degli incisi su cose difficili e come scavava i personaggi, facendone uscire tutto. Proprio tutto.

Mi viene in mente l'immagine di un limone strizzato.

E pensare che il limone è un ibrido nato da un Cedro e un tipo di agrume praticamente sconosciuto, a meno di vivere in Malesia dove cresce e viene consumato in abbondanza. Si chiama Pomelo e assieme al Mandarino e al Cedro costituisce la base, attraverso incroci tra di loro, di tutti gli agrumi che si conoscono.

Quando l'ho scoperto devo ammettere che ci sono rimasto un po' spiazzato. Avrei scommesso che uno dei tre agrumi fondamentali potesse essere il pompelmo e invece non è così.

 Vorrei mettermi a scrivere quel racconto, ma sento l'ispirazione svanire.

Non è pigrizia è una cosa strana che mi capita ogni volta e per ogni cosa mi metto a fare.

Se non riesco a dargli un senso, a incastrarla nella mia costruzione vitale, allora mi si sgonfia tra le dita e torna a generare noia. Così se voglio scrivere non devo solamente pensare a cosa scrivere, ma devo anche sentirmi di non perdere del tempo mentre lo faccio.

Facevo la collezione del Subbuteo da piccolo. Un giorno mi son chiesto a cosa mi serviva tutto quel gran mucchio di scatole piene di squadre (avevo la seconda maglia della Roma che mi piaceva moltissimo!), di pezzi di tribuna e dei lampioni.

Non sono riuscito a darmi una risposta e così ho regalato tutto a un mio amico.

Con la scrittura rischio sempre di fare questa fine, ogni giorno.

E anche dire queste cose su di me, in realtà, è solo un tentativo di esorcizzare questa mia ansia. Sembro il bambino che ha paura di non trovare la mamma quando torna dalla gita, così prima di partire glielo chiede 4 o 5 volte. Provando a ricordarsi bene la sua promessa, ma per quanto prova a convincersi, sente la paura dell'abbandono salirgli dall'intestino.

Suonano al telefono e torno al presente, al foglio bianco in questa stanza che ha solo un tavolo al centro e le pareti disadorne.

Disadorne?

Da dove ho ripescato questo termine?

Rispondo distratto e la voce dall'altra parte mi dice, con molta calma, che vuole parlare con Mario Selaschetti. Resto un attimo in silenzio, mentre mi osservo le mutande e noto una lieve macchia sul davanti.

-       No, ha sbagliato, mi spiace.

-       Ne è sicuro? – La voce, ancora calma, m'incalza lieve dall'altra parte

-       Certo, mi chiamo Paul Austen perché mai dovrei essere Selaschetti?

Vorrei mettermi a scrivere dunque, ma ogni scusa, anche inesistente, sarà capace di fermarmi.

Compresa questa.

Vi siete resi conto che non uso mai la parola "piuttosto"?

(aM 17.2008)

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