giovedì, luglio 30, 2009

Mar Esciallo

Continua, non so ancora per quanto, ma continua l'entusiasmante romanzo a puntate dell'Estate: Korniglia.

Se vi siete persi la prima puntata cliccate qui

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“Volo” dice Matteo, gettando l’ultima carta sul tavolo

Il suo compagno, come ubbidendo a un patto segreto butta giù un asso di cuori.

Poi sorride.

“Cazzo non mi ricordavo che c’era ancora l’asso in giro” dice Alessandro, un ragazzo con le lentiggini seduto a sinistra di Matteo.

Suona il cellulare. Matteo si alza e fa un cenno a un vecchio in piedi che stava seguendo la partita.

“Aristide prendi il mio posto che mi chiamano..”

Il vecchio si siede e inizia a guardare il suo mazzo di carte. Si gratta le balle con la mano libera, poi guarda il suo compagno, uno più o meno della sua età con una bella ciste carnosa sulla tempia destra, come per capire dalla sua espressione cosa deve giocare.

“Pronto?”

Matteo s’incupisce per un attimo poi risponde “ma no ti ho già detto che ho finito le birre, se non me ne porti almeno 4 casse è inutile…”

Alessandro deve scartare il tre di denari e si prepara a subire un’altra mano lunga: Aristide ha capito subito cosa fare. Alessandro e il suo compagno di gioco capiscono che sino alla fine delle carte non potranno far altro che rispondere senza possibilità di riprendere il bandolo del gioco.

“Va bè fa un po’ come vuoi..vorrà dire che la prossima volta vado alla Metro a fare l’ordine..” Matteo chiude la conversazione e si riavvicina ai giocatori. Gli scappa un “ma va a cagare…stronzo”.

Alessandro guarda Matteo con un’espressione interrogativa.

“Ragazzi, niente birre sino a giovedì, il corriere ha fatto casino..però se volete bere della Spuma bionda quella ne abbiamo in abbondanza..”

Alessandro butta l’ultima carta sul tavolo “mi sono rotto, basta! Avanti vi pago da bere e siamo a posto..cosa prendi Aristide?”

“Un goto de rosso” fa Aristide

“Uno anche per me” dice il vecchio compagno di Aristide.

“Ok, Matteo facciamone tre visto che a birra sei messo male…” dice Alessandro.

Poi si avvicina a Matteo. “Come sta?” gli dice schiacciandogli l’occhio.

Aristide li osserva e si mette a ridere.

“Non lo so, secondo me muore”

“Che ne dici se vado a dare un’occhiata?”

Matteo si guarda un attimo in giro e poi fa un cenno di assenso.

Aspetta già che ci sei porta giù questo. Fai il giro lungo, tra qualche minuto entra il nostro amico e ci romperà il cazzo come al solito.

Matteo prende da sotto il banco una busta con dentro dell’erba.

“Rosmarino?” dice Alessandro

“Si, di quello buono però..” Matteo sorride

“Saranno almeno 4 chili..li mortè!?”

“La scorta per l’inverno..portala a Billi”

Aristide sorride a due denti e si porta due dita verso la bocca mimando un tiro di sigaretta.

Alessandro dice “vado”, apre una porta con scritto “telefono” e s’infila in una piccola cabina dove s’un tavolino sghembo è sistemato un telefono e a fianco una seggiolina da picnic.

In basso, adagiato per terra, un vecchio elenco telefonico della Provincia di Spezia.

Richiude la porta.

Matteo guarda l’orologio e conta sino a dieci.

Arrivato a dieci si volta e vede entrare un carabiniere.

Un Maresciallo dei Carabinieri.

“Maresciallo che piacere…è venuto a prendere un caffè?”

Il Maresciallo si avvicina al banco e con l’indice punta Matteo.

“Tu sei uno stronzo! E prima o poi gli stronzi come te li porto a Villa Andreini, magari mi ci vuole un po’ ma poi vi ci porto tutti..”

Aristide e gli altri anziani sembrano essere diventati sordi di colpo.

“..e sai cosa mi piace di quando vi porto lì dentro..?”

Il Maresciallo prende uno stuzzicadenti dal bancone, vicino a una coppetta con delle olive taggiasche di qualche tempo fa. Matteo pensa “Sembra quasi una caricatura di un Maresciallo dei Carabinieri in qualche film anni ‘70”

“..quando si mettono a piangere come dei vitelli..dei vitelli verso il macello”

Il Maresciallo fissa Matteo negli occhi.

“Maresciallo ma perché mi dice così, sono solo un barista di un piccolo paesino delle 5 terre.”

“Finiscila! Lo sai bene che prima o poi tu e i tuoi amici vi becchiamo con le mani nella pasta..”

Matteo vorrebbe invitarlo a una spaghettata, ma teme che l’umorismo non sia apprezzato in questo momento.

“Guardi Maresciallo non so di cosa stia parlando..”

“Parlo di quel pacco enorme di mariuana che ha il tuo amico ricchione qui dentro. Perché è qui che sta adesso non è vero..?”

Matteo diventa scuro in volto.

Pensa a microspie ma poi si rassicura. Riccardo non lascerebbe mai che un aggeggio del genere s’infilasse in paese.

Il silenzio è assoluto. Aristide sembra annusare l’aria come una talpa.

Due Carabinieri con il mitra si piazzano davanti all’ingresso.

“Come vedi ormai non c’è più niente da fare..”

Il Maresciallo avanza verso la porta del bagno, un’altra coppia di Carabinieri si piazza davanti all’altra uscita.

“Senti, facciamola finita, se mi dici chi c’è dentro..tutti i nomi, ti prometto che ti faccio trattare bene dal procuratore..” il Maresciallo indugia con un’espressione compiaciuta.

Matteo pensa a quei film americani in cui la polizia dice al colpevole, confessa che ti sentirai meglio. Ma la cosa non l’ha mai convinto del tutto dal punto di vista logico.

Il Maresciallo si mette ad urlare “ti avverto stavolta sei fregato!” e con uno scatto apre la porta del bagno con gli occhi pieni di ansia del bambino che gioca a nascondino.

Il bagno è vuoto se si esclude un secchio con una ramazza e una pila di giornali vecchi.

Deluso, il Maresciallo torna a guardare Matteo mentre con la coda dell’occhio, compiaciuto, controlla la porta con scritto “Telefono”.

“Te lo chiedo per l’ultima volta…”

Matteo fissa il Maresciallo con un sguardo preoccupato. Un anziano fa per alzarsi, uno dei Carabinieri all’ingresso gli si fa incontro. Il Maresciallo gli fa un cenno e questo lo lascia passare.

Il vecchio esce dal bar e sputa per terra non appena fuori.

“E va bene, peggio per te…”

Il Maresciallo fa un cenno ai due carabinieri all’ingresso del bar, che rispondendo all’ordine si mettono davanti a lui con i mitra spianati. Tutto sembra pronto.

Poi uno dei due apre di scatto la porta con su scritto “Telefono”.

Al Maresciallo scappa un “macheccazzo!”

Dentro la cabina c’è solo un tavolino sghembo dove è sistemato un telefono e a fianco una seggiolina da picnic. L’elenco del telefono è ancora per terra.

Matteo dice “per le chiamate all’estero deve fare lo 00 prima..”

Aristide apre la sua bocca in un sorriso a due denti (larghi).

Il Maresciallo da un pugno sul bancone mandando in frantumi il contenitore dello zucchero. Il lungo cucchiaio che c’è dentro viene sbalzato a due o tre metri di distanza.

“Non so cosa cazzo sia successo, ma ti avverto prima o poi ti vedrò piangere mentre ti porto in galera…”. Poi il Maresciallo richiama i suoi uomini e se ne esce dal bar.

Un ragazzo vestito con una maglietta a righe e un cappello da marinaio entra nel bar.

Matteo che stava per pulire lo zucchero sparso ai 4 venti lo guarda e gli fa “senti un po’ Nino, ma non dovevi essere di vedetta tu oggi?”

Il ragazzo si siede a un tavolo e inizia a sfogliare la Gazzetta.

“Sì, fino a 5 minuti fa…” risponde il ragazzo

“Nino, il Maresciallo e i suoi gendarmi sono appena arrivati qui belli indisturbati e tu dov’eri?”

“Ero ad avvisare Billi ed Agostino che quel tipo si è svegliato..”

Matteo si fa scuro in volto poi portandosi l’indice verso il naso fa “shhh!”

Il ragazzo abbassando la testa si rimette a leggere il giornale.

Matteo pensa al ragazzo ritrovato alla Marina ,all’inverno che picchia e al fatto che, forse, tutto quanto sta per iniziare davvero.

Gli sembra di avere aspettato questo momento per secoli e secoli.

Poi si ricorda che forse è passato qualcosina meno.

Sarà pronto per tutto questo?

domenica, luglio 26, 2009

Basta con le contraffazioni dalla Cina!


Roba da matti!
Non bastano tutti i tarocchi con cui la Cina ci sta sommergendo per quanto riguarda merci e prodotti vari.
Adesso ci provano pure con le contraffazioni in campo letterario. Avrete probabilmente già letto la notizia sui principali quotidiani: dalla Cina è in arrivo la versione taroccata dei "Promessi Sposi" del Manzoni. L'opera che ormai ha invaso tutti gli Autogrill dal titolo "Gli sposi mantenuti" del fantomatico autore Aleandro Ming Panzoni copia spudoratamente, in tutto e per tutto, la trama del capolavoro manzoniano.
Partendo dai personaggi: Lenzo e Lucia che vogliono coronare il loro sogno d'amore e aprire così un ristorante e pizzeria dalle parti di Pechino con Bornago. Ma il perfido Innomina-Tsu e i suoi Blavi cercheranno d'impedirlo.
Non manca la scena dell'Azzeccagalbugli con le proverbiali oche laccate cantonesi e il famoso incipit "Epiculo chi era costui?" di Don Abbonzo.
Il libro costa molto meno dell'opera originale (2,13 Euro), ma vi avverto, trattandosi di merce taroccata resterete delusi. Le ultime 20 pagine infatti, invece di contenere la fine del romanzo sono state riempite con il manuale d'istruzioni di un pupazzo giocattolo a forma di Saddam Hussein in mimetica che balla al ritmo di "I Will Survive".
Le pagine inoltre sono contaminate con una sostanza chimica altamente pericolosa che provoca la caduta di tutti i peli del corpo e fa venire l'alito pesante.
Maledetti cinesi!

giovedì, luglio 23, 2009

Korniglia

Come al solito viene l’estate e mi butto a capofitto s’un progetto di romanzo che poi non porterò mai a termine.

Questo progetto è diverso dagli altri perché, questa volta, gli ho affidato lo scopo di portarmi via da questa vita da impiegato.

Lo pubblico sul blog a puntate così potrete sputtanarmi quando smetterò di andare avanti.

“Korniglia”

“Vuoi fumartela tutta da solo?”

Billi aspira forte e gli occhi gli diventano ancor più rossi.

Poi si sporge dal parapetto di pietre con la testa sopra al grande strapiombo grigio verde del mare.

Tiene la canna dietro la sua schiena, per proteggerla dalle folate del vento.

E’ ancora accesa e manda in giro il suo profumo di arrosto esotico.

Sta arrivando la tempesta, sale forte dal mare.

“Tieni, ma lasciamene un tiro” Billi porge la canna ad Agostino, stando attento a non farne cadere nemmeno una caccola.

E’ rossa incandescente al passaggio di quel vento che sa di mare e di freddo. Ti fa diventare il naso pieno di liquido.

“Minchia che freddo!” gli dice Agostino, un tipo grosso come un armadio con la testa piena di riccioli rossi. Poi aspira profondamente, tanto che gli scappa un colpo di tosse.

“eh! Allora?” gli dice Billi battendogli sulla spalla quadrata.

“Che c’è?” gli fa Agostino.

“Cosa ne pensi di quello arrivato ieri?”

“Boh? Che vuoi che ti dica?”

“Secondo te possiamo fidarci?”

Billi lo guarda per un attimo, poi aggiunge “sembra arrivato dal niente…se non c’eri tu ieri a pescare giù alla Marina..a quest’ora era in fondo al mare a dar da mangiare ai pagari”

Agostino tossisce poi gli ripassa quel che resta del tizzone. Si stringe al bavero del giubbotto jeans che indossa e guarda un gabbiano restare alto senza fare un movimento.

“Non lo so, ma aspetterei a mostrargli i segreti di questo posto.”

“Dovremmo torturarlo?” Billi aspira l’ultima brace. Poi con un colpo di indice e pollice manda il filtrino rimasto oltre il muretto di pietre a secco giù nella scarpata, verso il mare incazzato.

Salta un paio di agavi e un paio di piante di fichi d’india prima di venire dissolto dalla schiuma delle onde.

“Sì, hai ragione, facciamogli vedere per una giornata intera qualche film polacco dei tuoi”

“Sei proprio un bifolco, la prossima volta che mi chiedi una videocassetta per passare il tempo ti fotti..”

Ridono, mentre dal mare arriva una folata di vento carico di sale.

“Mi raccomando non diciamogli dove può trovare le acciughe vere e non quelle per turista che comprano al supermercato a Spezia….”

“Sì e nemmeno chi tiene le scorte di maria per tutto l’inverno.” Risponde Billi.

“E dove si beccano le orate scappate dai vivai del Ferale che s’imbastardiscono con quelle naturali..”

“E che lo sciacchetrà che vende Matteo è un passito toscano da quattro soldi..”

“Come vuoi dirmi che non è originale? Questa non la sapevo nemmeno io…”

“Adesso devo ammazzarti Billi!” Agostino non finisce la frase che si mette a ridere di gusto.

Billi sembra deluso, un pensiero sembra contrariarlo, poi stringendo la testa tra le spalle dice “va bè, vatti a fidare degli amici..stasera mi faccio un mojito piuttosto del suo vino taroccato..”

“Avvisi il maresciallo del nuovo arrivo?” Agostino fissa Billi negli occhi.

“Sei pazzo. E’ vero che non sappiamo nulla di lui e che non ha documenti addosso, ma ti ricordo che se avessi fatto così nessuno di voi adesso vivrebbe qui tranquillo e beato, in questo paese che d’inverno vanta ben 250 anime che si fanno gli affari propri..”

“..e che custodiscono il segreto del mondo!”fa Agostino sorridendo.

“Sì, come dice Agostino..Bere mangiare drogarsi e fare casino…!” dice Billi con un crescendo di voce.

“Già hai ragione, non serve chiamare il Maresciallo, se il tipo non muore, però..” Agostino mette una mano sulla spalla di Billi.

“Non muore, non muore sta tranquillo…non appena si riprende gli diamo un po’ di Schiacchetrà di Matteo..” Billi sorride poi fa “A che ora lavori stasera?”

Agostino mette sul volto un’espressione dubbiosa “lavorare è una parola grossa, sai che a gennaio non c’è nessuno..apro l’Osteria solo per dovere..mi metterò a fare due conserve.”

“Che pesci hai?” gli chiede Billi

“Poco, mi son rimasti due suetti e un paio di polpi del Mesco.Li faccio andare sulla brace”

“Allora passo a trovarti, porto del vino e qualche disco di sottofondo..che dici?”

Agostino annuisce “ok, ho anche del pesto messo da parte e un mezzo chilo di linguine..dillo ad Andrea se vuoi..poi finiamo in veranda..”

Billi ci sta pensando su quando un bambino vestito con una maglietta a righe e il cappello da marinaio in testa esce dal carrugio e piomba sulla terrazza panoramica.

“S’è svegliato! Quel tipo s’è svegliato!”

Billi si avvicina al ragazzo e gli dice “Ok, vengo..”

“ha detto qualcosa?” gli chiede Agostino.

Il ragazzo annuisce e poi continua “si, ha detto che vuole parlare con il Fante di Cuori”

Un’espressione di terrore compare sul volto di Agostino, mentre Billi sembra essere colpito da un pugno allo stomaco.

“Andiamo, Cristo!” esclama Billi, tornando dal profondo del suo ultimo pensiero.

Poi corrono tutti a infilarsi nel budello di case, lasciando la tempesta a tentare di entrare nel cuore del piccolo paese arroccato sulla collina.

lunedì, luglio 20, 2009

Ansia

Adesso che spero di esserne fuori, posso ammettere di aver attraversato un brutto momento.

Uno dei più brutti della mia vita.

Di colpo il mio cervello ha iniziato a produrre ansia in quantità industriali. All’origine del mio viaggio nell’Ade una questione lavorativa. Una persona che lavora in un’azienda di persone importanti, mi ha messo pressione su alcuni temi e io ho incominciato a immaginarmi l’unico colpevole di eventuali ritardi, a immaginarmi additato all’interno della mia azienda come beota, crocifisso dal mio responsabile, licenziato in tronco per colpa grave.

Che fine avrebbero fatto i miei figli? Come dir loro che non posso più comprargli i Gormiti?

Di giorno ogni cosa mi sembrava nera e limitata, dalle pareti di grigia gomma vischiosa, la mia vita si fermava all’evento e non andava oltre. Nemmeno il pensiero di vedermi dopo due anni, dicendomi ad alta voce “mica ti ammazzano” mi faceva sentire meglio. Il week-end in famiglia volava come gli ultimi tre giorni del condannato a morte. I miei cari si preoccupavano per me, ma nessuna delle loro parole lenitive aveva effetto. Ero nel posto più bello del mondo ma mi pareva di essere a Lambrate di Gennaio.

Oggi che le cose sono passate, come mille altre, senza grandi conseguenze, resta in me la domanda di come possiamo essere così mal progettati da farci così male da soli.

Vorrei mettere a frutto queste cose, capire per evitare che si ripropongano un’altra volta, senza dover ricorrere alla Chimica.

Voglio evitare di vedere la mia faccia allo specchio e di scorgervi un bue pacioso con il volto tumefatto dagli ansiolitici.

E soprattutto vorrei davvero poter insegnare ai miei figli che nella vita solo alla morte non c’è rimedio. Anzi per non rompere da subito con il grande Tema delle nostre vite, dirgli solamente che a tutto c’è rimedio. Dirgli che l’ansia non serve a niente perché è lo scarto di lavorazione del cervello più inutile che ci sia. Che alla fine se anche tutto andasse male, resta sempre Pitcairn.

Avevo 15 anni e avevo paura di sbagliare i saggi a scuola. Un misto di timore e orgoglio mi facevano odiare il momento in cui dovevi dire ai tuoi genitori non è andata bene. Perché significava solo che non avevo fatto il mio dovere di studiare (ed effettivamente quando accadeva era sempre per questo motivo). Certe mattine viaggiavo verso la mia giornata come un locale sulla tratta Mortara Milano Porta Genova.

Un giorno vidi un documentario s’un Isola talmente sperduta dove non solo si erano sistemati gli ammutinati del Bounty, ma i loro discendenti continuano a starci pure oggi, organizzandosi per avere tutto quel che serve per vivere. Ovviamente non c’è niente di urgente o di pressante. O per lo meno questo apparve nella mia testa di ragazzo ingenuo: il più classico dei miti della fuga che da lì a poco avrebbe cambiato almeno una vocale.

Così scrissi a matita sopra il mio letto “ricordati di Pitcairn”.

Devo essermelo scordato se ancora oggi sulla soglia dei 40 anni lascio che il mio cervello si diverta a prendersi gioco di me.

Se anche voi, ogni tanto, vi sentite preda di ansie, sappiate che non dipendono da qualcosa che è successa fuori, ma probabilmente da qualcosa che è ancora dentro di voi.

giovedì, luglio 09, 2009

In ginocchio: c'è Arte!

"Camera chiusa per contenitori di piedi abusati", Rick Danilo Barfonzi.

Museo Poldi Puzzoli, Milano dal 6 al 24 Luglio 2009.

Quando mi hanno detto “vieni a vedere il nuovo lavoro di Barfonzi” confesso di non aver espresso il massimo della disponibilità. Troppo fresca la sensazione di "straniamento" (come detto da A. B. Oliva a riguardo di questo artista) e l’intimo disagio che mi aveva preso alla sua ultima Kermesse durante la Biennale dello scorso anno. Devo ammetterlo ero forse prevenuto, ma come non esserlo dopo aver visto all’opera il genio del Barfonzi. Se l’essenza e lo scopo ultimo dell’Arte è rappresentato dalla sua capacità di rapire gli animi, dal suo muovere le coscienze, come non essere rapiti dal lavoro di questo straordinario artista americano dalle chiari origini latinoamericane.E così , alla fine, ho accettato senza indugi, ben conscio che avrei assistito ancora una volta a qualcosa di straordinario.

Il ricordo dell’installazione precedente è ancora forte: “20 diarree per un solo bagno”. L’anno scorso a Venezia ci siamo lasciati tutti rapire dalla sua capacità di condurti sino al limite, di portarti a provare quello che il Barfonzi ti vuole far provare: non è forse il desiderio di tutti gli artisti? Geniale l’idea di drogare, con un potentissimo lassativo, le bevande e le tartine offerte in quello che pareva un Foyer assolutamente estraneo al’opera.

Quando poi la devastante e subitanea azione del farmaco ha avuto il sopravvento sul fisico di noi straniti partecipanti, la scoperta di essere prigionieri all’interno dell’installazione (fantastica la decisione del Barfonzi di sigillare le porte d’uscita con della carta igienica impastata con del sigillante siliconico) è stata un’emozione indicibile addirittura ingigantita (se possibile) dall’immediata comprensione di avere un solo bagno a disposizione.

Chi ma avrebbe potuto immaginare di essere così parte del suo lirico progetto?

Nessuno mai era riuscito a far piangere e gridare dall’emozione crescente una ventina di critici e giornalisti specializzati come questo lavoro davvero impressionante.

Nella sala allestita all’interno del Museo Poldi Puzzoli, ho avvertito subito una strana sensazione di ristagno, causata forse dai colori scuri utilizzati dall’artista per decorare il Foyer d’ingresso all’installazione dal titolo “Camera chiusa per contenitori di piedi abusati”.

Tutte le facce dei presenti guardavano con sospetto la porta semiaperta che dal Foyer immetteva in una stanza più scura e il piccolo catering messo a disposizione dei visitatori.

Uno alla volta, poi, come richiamati da una criptica liturgia, al suono di un campanello si veniva invitati ad accedere nella Stanza.

Una paio di mani robuste afferravano la testa e le spalle dei più timorosi giunti sulla soglia dell’ingresso.

Dal di dentro, ma forse è stata solo un’allucinazione, mi è parso di avvertire colpi di tosse e un vago rumore come di una persona recalcitrante costretta a qualcosa di non voluto.

Un generale senso di curiosità s’impadronì dei visitatori in attesa del proprio turno.

Quando fu il mio, entrai così pieno di entusiasmo che quasi non percepii il calcio nel fondoschiena che un energumeno vestito tutto di rosa mi aveva propinato di soppiatto, poco dopo il mio ingresso.

Un enorme puzzo di piedi è tutto quello che ricordo, poi svenni forse per un tipico caso di attacco di Sindrome di Stendhal. Del resto di fronte alle opere del Barfonzi non si può restare insensibili.

martedì, luglio 07, 2009

"Dez Amerega": Corniglia 5 terre


Qualcosina è cambiata negli ultimi 30 anni scarsi a Corniglia, il paese più impervio delle 5 terre. Avevo sei anni e una brutta otite da curare, per cui mi portarono a prendere l’aria buona nel tentativo (riuscito al primo colpo) di evitare altre punture.

Era il posto perfetto per alimentare la fervida creatività di un bambino di quell’età. Ancora lontana dal boom turistico, si arrivava in paese dopo un ascesa di 382 scalini che si abbarbicavano sulla collina su cui dei folli avevano eretto il paese della Gens Cornelia, iniziando a salire dalla Stazione minimale e scassata e da una fenomenale spiaggia di sassi.

Poi arrivati in una piazzetta il cui unico scopo era dividere il quartiere vecchio da quello ancor più vecchio del paese, si entrava a Corniglia dal suo carrugio principale. Un budello dove la luce del sole fatica a entrare, piena di portoni che conducevano in grotte e cantine con qualche eccezione per i locali della macelleria, del bar e dell’unico alimentari del paese. Il più classico degli alimentari del paese che vende poco ma di tutto con il suo bancone frigo triste per la presenza di pochi esemplari di formaggi e salumi, nessuno di marca. E poi quell’odore tipico, misto tra latte, mozzarella e verdura vissuta.

Giocavo con i bambini del paese che ancora esistevano. Si correva in questi budelli di pietra che ogni tanto si affacciavano sui campi lavorati a pendio sul mare, perché la gente del posto non ha mai amato troppo il mare e si è sempre mantenuta terraiola: bisogna non voler per niente bene al mare per spaccarsi le ossa a tirar fuori vino, frutta e vegetali dalle pareti scoscese delle colline piuttosto che andare a pescare tutti i giorni. Roba che se arrivato al campo ti sei dimenticato a casa qualcosa le bestemmie le sentono sino alla Capraia.

Ma in fondo, come dargli torto ricordandosi che tanti anni fa dal mare non arrivavano traghetti carichi di turisti quanto piuttosto orde di simpatici saraceni pronti a razziare tutto quel che potevano.

Il mondo e l’universo fantastico finiva a Santa Maria: un terrazzo alla fine del carrugio dove si vede il mare sino alla Corsica, a volte, se c’è chiaro. Oppure sotto la torre, dove il risultato era lo stesso: una sterminata vista blu verso il mare aperto.

Mi avessero detto che la terra è rotonda e finita mi sarei messo a ridere.

Dopo 30 anni circa ci sono tornato e qualcosina devo ammettere è cambiata. Il carrugio è pieno di gente che s’infila nei vari locali che sono stati ricavati dalle cantine e dai fondi di una volta. La lingua ufficiale non è più quel misto di genovese e dialetto della valle di Vara ma l’inglese. Non c’è più la macelleria, ma adesso c’è un’Enoteca che vende bottiglie interessanti (Sassicaia, Biondi Santi e ovviamente Sciacchetrà) e una serie di bottiglie “storiche” con la faccia di Mussolini, Stalin e Hitler sulle etichette: ho contato un sacco di turisti stranieri che si fermavano a guardarle ridendo, poi due giovani italiani ne hanno comprate un paio per gli amici: mi sento sempre più un italiano in esilio in Italia...

Sotto casa adesso c’è una gelateria gestita da due fratelli milanesi che hanno mollato la metropoli per la tranquillità: si fa per dire, oggi. Non so come ma un po’ di vecchi amici indigeni mi hanno riconosciuto (in fin dei conti lo sono stato anch’io) e mi hanno omaggiato di prodotti locali. Soprattutto il vero vino delle loro terre mi ha abbattuto: un bianco dal color ambrato che si può bere fresco e non freddo, consci del fatto che dopo si deve andare a nanna (visti i suoi 14 e passa gradi).

Un giorno verso le 4 un Ape si è presentata nella piazza del paese ed è stata assalita subito da orde di anziani del villaggio. Poco dopo ognuno si avviava verso le proprie cantine con una o due cassette di acciughe. Morivano dalla voglia di pulirle e di metterle sotto sale nelle arbanelle (contenitori di vetro ad hoc).

Ho anche mangiato focaccia, quella vera, quella della provincia spezzina che è diversa da quella genovese: questa la puoi anche inzuppare nel caffelatte…anche se a me non piace il latte.

Nel negozio di alimentari l’odore è sempre lo stesso e questo mi ha fatto tornare vividissimi una serie di ricordi anche visivi (l’olfatto è la vera macchina del tempo).

Non so dire se sia meglio la Corniglia di oggi o quella di allora, so solo che ci si sta bene. Molto bene pure oggi.

Un amico che ha una pensione mi ha detto che un americano ha smontato la tavoletta del cesso per potersene andare via un giorno prima senza pagare.

Ecco forse sono gli americani che non sono più quelli di una volta..

lunedì, luglio 06, 2009

Buone notizie, ogni tanto..

(da Corriere.it)
Condannati i poliziotti per la morte di Aldrovandi
Tre anni e sei mesi ai quattro agenti accusati di eccesso colposo nell'omicidio del ragazzo di 18 anni.

Se vi siete persi questa tragedia, trovate il link al sito dei genitori di Federico qui in basso a destra nella sezione dei Links, oppure cliccate qui.

Nella mia vita di impiegato moderno non ho mai sostenuto delle cause, a parte questa.


mercoledì, luglio 01, 2009

Muscoli da succhiare


Verso Aprile inoltrato, se il tempo si divertiva a giocare un anticipo di Estate, la voglia di andare a scuola mi abbandonava completamente. Anzi a essere precisi più che abbandonarmi si trasformava in una sensazione di rompete le righe, di lassismo autorizzato: come se i giorni dell’impegno stessero finendo e che ci fosse quindi posto solo per celebrare un arrivederci alle pene settembrine del rientro e non per fare saggi o interrogazioni.

Questa sensazione rimase anche quando, raggiunta l’Università, mi trovai a fare il pendolare tra il week end a casa in una città sul mare, e la settimana di Studi ed Esami a Milano.

Quel week-end con due coppie di amici prendemmo il traghetto per l’Isola Palmaria. Così fuori stagione non c’era quasi nessuno, a parte i pochi militari a guardia del nulla e delle strutture dei vari circoli sotto-ufficiali dove il caffè non costa nulla e i tramezzini sono gonfi come le angurie ad Agosto. Abbastanza caldo per guardare il mare verde e ruffiano con la voglia di immergersi, ma ancora troppo freddo per non lasciarci il respiro mozzato dalla frustata dell’acqua fredda sullo stomaco.

Puntammo decisi su alcuni scogli della zona che guarda il mare aperto e la corrente più libera.

Un gabbiano provò col suo grido a farci ripensare, invano.

Ci ritrovammo con le gambe immerse a raccogliere il tesoro dalle pietre, dagli scogli e dal fondale meno profondo. I Jeans buttati sui bordi del sentiero che conduceva alla vecchia prigione napoleonica sembravano gli avanzi di una baraccopoli abbandonata di ROM.

Intirizziti e violacei portammo a terra quel bottino: tre o quattro chili di muscoli neri, quanto sarebbe bastato per una spaghettata.

Alla sera a casa facemmo sciogliere una mezza testa d’aglio nell’olio caldo, assieme a una capocchia di peperoncino rosso seccato in una padella enorme. Poco dopo toccò ai muscoli immergersi nel loro nuovo universo dorato, tra schizzi di trionfo e profumo di fame crescente. Pochi minuti, il tempo che gli ci volle per aprirsi e lasciar scappare quanto ancora si erano tenuti dentro del mare.

Spenta la fiamma si aggiunse il prezzemolo tritato a caso e stappammo un bianco.

Il giorno dopo in treno verso Milano, il paesaggio aveva il consueto pallore sordo del cammino del dovere.

Sapevo d’aglio da far schifo…